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I trucchi dell’egoismo, perché Mister Hyde vince spesso su Dottor Jekyll

Quando sbagliamo, il nostro Io più egoista riesce sempre a trovare una giustificazione. Il Mister Hyde dentro di noi sa sempre che corde toccare

di Vittorio Pelligra

9' di lettura

Siamo tutti un po' dottor Jackyll e un po' mister Hyde. Vacilliamo tra spinte altruistiche e ripiegamenti egoistici in un perenne conflitto tra i nostri orientamenti umanitari e quelli più individualistici. Spesso, però, abbiamo netta la sensazione che, nonostante gli manchi il titolo accademico che sfoggia, invece, la sua controparte, in questo vacillare perenne, mister Hyde sia decisamente più astuto e raffinato e le sue tecniche e le sue arguzie più efficaci nell'orientare e determinare le nostre scelte. Egli è un maestro nell'arte dell'insinuare il dubbio.

Uno Iago shakespeariano reinventato, che ha trovato un nuovo impiego come dileggiatore degli onesti e dei buoni. «Oh, guardatevi dal fare il bene, mio signore», vi sussurra all'orecchio. Non più la gelosia verso Desdemona è la sua materia preferita, ma la bontà d'animo e la disponibilità all'aiuto degli altri. E così ci lasciamo convincere del fatto che gli altruisti sono antipatici - questo lo avevamo già appurato qualche settimana fa - e che, in genere, sono anche molto meno altruisti di quanto non appaiano. Aleggia un legittimo sospetto intorno a chi si dedica agli altri, fa volontariato, spende tempo e risorse per portare sollievo e beneficio a qualcuno che non sia se stesso.

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Le radici del nostro egoismo
Ci dev'essere sotto qualcosa, un secondo fine, un interesse nascosto, diretto o indiretto. Quante volte abbiamo sentito, o forse anche pronunciato, discorsi simili. Sono simili, nella logica, a quelli che udiamo dagli evasori che si giustificano dicendo che tanto tutti evadono le tasse. Gli stessi di coloro che non pagano il biglietto dell'autobus perché la maggior parte degli altri utenti non lo pagano; di quelli che sporcano in giro e inquinano perché tanto la città è sporca e inquinata; simili a quelli di coloro che cercano la raccomandazione perché in Italia si va avanti solo così, e potremmo continuare con molti altri, e familiari, esempi.

C'è una forma di autogiustificazione in questi discorsi, è evidente. Gli specialisti lo chiamano “self-serving bias”. Un processo cognitivo che ci aiuta ad apparire migliori ai nostri stessi occhi anche quando sappiamo che, in fondo, ci stiamo comportando da vili. Studiare con precisione questi fenomeni può essere complesso perché spesso le spiegazioni sono caratterizzate da causalità inversa.

In altre parole, venendo ai nostri esempi, sarò più egoista perché mi aspetto che gli altri siano egoisti o siccome, mi conviene essere egoista, allora modifico le mie credenze circa l'egoismo degli altri? Tradizionalmente si è dato maggiore peso al primo tipo di spiegazione: osservo la realtà, fatta di evasori, inquinatori, disonesti, corrotti, e questo rende più semplice, continuando a sentirsi nel giusto, evadere le tasse, inquinare e indulgere in piccole o grandi furberie. Solo recentemente gli studi hanno messo in luce la portata della seconda strategia, quella che ci spinge, visto che abbiamo vantaggio a comportarci in modo egoistico, a auto-convincerci che gli altri siano più egoisti di quanto non sono in realtà. L'economista James Konow ha studiato per molti anni i principi di giustizia e i comportamenti che questi ispirano in ambito economico.

In un interessante esperimento condotto qualche anno fa, Konow ha analizzato il modo in cui i partecipanti sceglievano di dividersi il frutto del loro lavoro. Immaginate di lavorare in coppia ad un progetto. Quel progetto produce certi risultati tangibili che voi e il vostro partner avete contribuito a determinare, spesso in maniera asimmetrica. In alcuni casi il vostro lavoro ha prodotto un impatto maggiore, altre volte sarà stato il lavoro del vostro partner a contribuire in misura maggiore alla riuscita del progetto. Ora dovete decidere come spartirvi i benefici ottenuti. Le possibilità per dividere in maniera giusta la torta sono almeno due. Si può adottare un principio di «giustizia come uguaglianza», cioè dividere il guadagno in modo uguale, cinquanta e cinquanta; oppure si può utilizzare un principio di «giustizia come proporzionalità», che equivale ad una distribuzione dei benefici proporzionalmente alla contribuzione di ciascuno.

Come variano i nostri principi
Chi ha prodotto di più, riceverà di più e chi ha prodotto di meno riceverà relativamente di meno. Entrambi i principi hanno virtù e limiti, ma non è questo il punto della questione. Il punto vero è che la preferenza per uno o l'altro dei principi, questo ci dice lo studio di Konow, varia al variare delle circostanze in cui si trova colui che la esprime. Quelli che avevano contribuito di meno, sistematicamente optavano per un criterio egualitario, mentre coloro che avevano contribuito di più, invariabilmente preferivano il principio proporzionale, cambiando di volta in volta prospettiva e ideale di giustizia, a seconda della circostanza e del caso.

Lo studio trova anche che, una volta adottatto un ideale di giustizia sulla base di convenienze individuali, questo viene esportato anche in altri contesti nei quali la il movente della convenienza viene a mancare. Cioè, il self-serving bias può plasmare la nostra visione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato in modo duraturo e pervasivo, anche al di là dei singoli casi specifici dai quali era stato generato sulla base di convenienze estemporanee (Konow, J., 2000. “Fair Shares: Accountability and Cognitive Dissonance in Allocation Decisions.”, American Economic Review 90 (4): 1072–91).

Se l’ignoranza giustifica l’egoismo
Per giustificare il nostro egoismo, altre volte, invece, preferiamo l'ignoranza. Facciamo finta che le nostre azioni non abbiano conseguenze o, addirittura, scegliamo, volontariamente, di rimanere all'oscuro delle conseguenze che queste produrranno. È quello che hanno documentato Jason Dana e i suoi colleghi in un altro esperimento che individua una “moral wiggle room”, una zona franca morale nella quale ci muoviamo e che utilizziamo per giustificare le nostre scelte meno che altruistiche. Dana e soci hanno chiesto ai partecipanti al loro esperimento di scegliere come dividere del denaro tra loro e un altro partecipante che gli era stato abbinato in maniera anonima.

Sei dollari a me e uno a te, oppure cinque a ciascuno, prevedeva uno dei casi possibili. In un secondo trattamento, l'esperimento introduceva la dimensione dell'incertezza. Ogni partecipante era messo a conoscenza del risultato che la sua scelta avrebbe avuto sui suoi guadagni, sei o cinque, ma allo stesso tempo rimaneva incerto circa l'effetto della sua scelta sul guadagno dell'altro giocatore. In alcuni casi sarebbe stato meglio se il soggetto avesse scelto cinque per sé, ma in altri casi la scelta migliore per tutti sarebbe stata scegliere sei. Prima di decidere, ad ogni partecipante veniva data l'opportunità di verificare con precisione l'effetto delle proprie scelte sui guadagni dell'altro giocatore, eppure solo il 50% dei partecipanti decise di avvalersi di questa possibilità.

Quando le conseguenze sono certe il 26% dei partecipanti sceglie la divisione egoistica, sei per me e uno per te, ma, in presenza di incertezza, invece, la percentuale sale al 63%. Se non sono sicuro del danno che posso arrecare all'altro, la scelta di danneggiarlo diventa psicologicamente più sostenibile. Che importa poi se tale incertezza si sarebbe potuta facilmente superare cliccando semplicemente su un pulsante. Meglio non sapere, soprattutto se in questo modo mettiamo a tacere i nostri scrupoli di coscienza.

Tutti i sotterfugi del nostro Mister Hyde
Ma il mister Hyde che è dentro ognuno di noi è sorprendentemente scaltro e capace di utilizzare tecniche auto-giustificatorie ancora più complesse, se in questo modo può mettere a tacere in nostro fastidioso dottor Jekyll. Per esempio, quando deleghiamo a terzi, quelle scelte che ci procurano un vantaggio a scapito del benessere di qualcun altro, oppure, ancora, quando scegliamo di decidere di non decidere, cioè ci precludiamo volontariamente la scelta se essere altruisti o meno, per paura di non riuscire a resistere a fare del bene. In un sorprendente esperimento sul campo, Stefano Della Vigna, John List e Ulrike Malmendier, hanno studiato la disponibilità di 7.668 famiglie dei ricchi sobborghi di Chicago a fare donazioni per un ospedale pediatrico della città.

In un caso, i volontari suonavano semplicemente alla porta delle case spiegando la natura della raccolta-fondi che stavano promuovendo, per poi ricevere o meno la donazione. In un secondo caso, i volontari lasciavano, invece, un volantino sulla porta delle case con l'indicazione dell'ora esatta della visita dei volontari che sarebbe avvenuta il giorno dopo. In un terzo caso, nel volantino veniva data la possibilità di segnalare l'indisponibilità alla visita attraverso un segno da lasciare fuori della porta di casa. I risultati sono piuttosto istruttivi: l'uso del volantino riduce del 10% la probabilità che ai volontari venga aperta la porta. I padroni di casa, sapendo della visita e della sua ragione, semplicemente, non si fanno trovare o non rispondono al campanello.

La comoda opzione “non disturbate”, invece, viene utilizzata nel 25% dei casi. Siccome so che mi verrà chiesta una donazione per un ospedale pediatrico e so che in questo caso probabilmente accetterò di farla, preferisco direttamente evitare che mi venga chiesto. Trovarsi nelle condizioni di dire di no ad un'azione benefica ha un costo, derivante dalla pressione sociale, che gli autori dello studio stimano essere pari a circa $3.80. Per questo, spesso, preferiamo direttamente non trovarci in una tale imbarazzante situazione («Testing for Altruism and Social Pressure in Charitable Giving», Quarterly Journal of Economics 127, pp. 1–56, 2012).
Ma le astuzie di mister Hyde non finiscono qui.

L’auto-inganno strategico
La profondità del suo impegno arriva fino ad indurci a veri propri fenomeni di auto-inganno strategico. È il caso evidenziato dai risultati di un esperimento condotto in Argentina qualche anno fa. Consideriamo due persone che, dopo aver lavorato insieme, ottengono un certo prodotto. Ad uno dei due viene dato il compito di decidere a quanto vendere il prodotto e all'altro, invece, su come dividere i guadagni. Il primo ha la possibilità di vendere il prodotto ad un prezzo giusto oppure di fare la «cresta», intascandosi parte del guadagno e facendo credere di essere riuscito a spuntare solo un prezzo basso. Prima di conoscere la scelta del venditore, il secondo socio dovrà decidere quanta parte dei guadagni andranno a lui e quanti all'altro. Anche in questo caso c'è spazio per la disonestà: in un caso colui che divide i guadagni ha la possibilità di appropriarsi fino al 60% dell'intero guadagno e in un secondo caso, invece, fino al 90%.

Contemporaneamente ai partecipanti viene chiesto anche di stimare la percentuale di quanti, secondo loro, decideranno di fare la “cresta”. La precisione di tali stime verrà poi ricompensata con un premio in denaro. Ciò che emerge dallo studio è, ancora una volta, sorprendente. Innanzitutto, coloro che hanno la possibilità di prendere una fetta maggiore del guadagno decidono di farlo. Più puoi prendere, più prendi. Le condizioni esterne dell'accordo influenzano, cioè, il risultato stesso dell'accordo. Ma soprattutto quando i soggetti possono appropriarsi di una quota maggiore del guadagno e scelgono di farlo, la loro stima circa la disonestà dell'altro giocatore cresce del 41% (Di Tella, R., et al., 2015. “Conveniently Upset: Avoiding Altruism by Distorting Beliefs about Others' Altruism”, American Economic Review, 105(11), pp. 3416–3442).

Emerge una relazione causale tra il comportamento egoistico che, per essere giustificato agli occhi di chi lo pone in essere, necessita di una bassa opinione degli altri. Mi formo la convinzione che gli altri siano disonesti in modo da mettermi nella comoda condizione di essere egoista a mia volta.
Le implicazioni generali di questi risultati sono fortissime perché sappiamo bene che la forma che diamo alle nostre istituzioni, il favore che ricevono certe politiche fiscali e redistributive e la struttura dei sistemi sanitari e di welfare, dipendono in maniera fondamentale dalle opinioni che i cittadini hanno rispetto al merito e al carattere dei loro concittadini. Thomas Piketty, per esempio, ha mostrato l'influenza di queste credenze circa le opportunità offerte dal mercato del lavoro, rispetto all'orientamento politico.

Il rapporto tra credenze e disuguaglianze
Si può spiegare in questo modo perché, per esempio, elettori con redditi simili, ma origini sociali differenti, si orientino politicamente in maniera differente. Questo contribuisce ad una comprensione più ricca e profonda dei fattori che accelerano le dinamiche della disuguaglianza e delle forze che ostacolano politiche redistributive e processi di riforma sociale. Un approccio simile ha portato Alberto Alesina e Edward Glaeser a mostrare come la differenza che esiste tra i sistemi sanitari e di welfare europei e nord-americani, è riconducibile ad una differente struttura di credenze e convinzioni dell'opinione pubblica di quei continenti. Da una parte gli americani, più propensi a vedere nella povertà un effetto dell'insuccesso e della mancanza di impegno individuale, dall'altre gli europei che, invece, attribuiscono un peso maggiore ai vincoli e ai condizionamenti sociali che, a causa di minori opportunità, ingabbiano molti nella povertà e nello svantaggio.

Il 60% degli americani, stando ai dati della World Value Survey, è convinto che la povertà sia una colpa, mentre la percentuale dei cittadini europei con la stesse idea è pari al 26%. Il 60% degli europei, invece, crede che la povertà rappresenti una trappola dalla quale è quasi impossibile sfuggire, mentre solo il 30% degli americani la pensa allo stesso modo. Credenze differenti che generano modelli politici e sociali differenti («Un mondo di differenze. Combattere la povertà negli Stati Uniti e in Europa», Laterza, 2005). Ecco solo alcune delle ragioni per cui comprendere il meccanismo che porta alla formazione di tali opinioni assume una rilevanza cruciale. Aver dimostrato che spesso queste credenze sono una forma di autogiustificazione che ci forniamo per rendere più tollerabile il nostro egoismo, è un fatto determinante.

Questi dati gettano nuova luce sulla comprensione di ciò che chiamiamo il più delle volte impropriamente, «meritocrazia». Non c'è merito se i risultati che otteniamo derivano esclusivamente dalle differenti condizioni di partenza. Chi ha scelto dove nascere? Chi si è scelto la famiglia, i genitori, il vicinato, la città, la nazione o il continente? Chi ha scelto il reddito dei genitori, le loro occupazioni, la loro capacità di dare amore e di creare opportunità? Giudicare gli altri e regolare le nostre azioni senza aver fatto la tara tenendo conto di tutti questi elementi del tutto casuali rischia di condurci solo ad un'altra forma di auto-inganno che, come abbiamo visto, può facilmente alimentare atteggiamenti egoistici e auto-interessati. Quindi se gli altruisti sono antipatici, spesso, molto spesso, la colpa non è loro, ma solo nostra e della Mont Pelerin Society, naturalmente.

Per approfondire:
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